Riflessioni sulla riscrittura di un omicidio Rinascimentale

Tratto dal libro "Love and Death in Renaissance Italy"

Scritto dal Professor Thomas V.Cohen York University – Toronto

Traduzione a cura della Dott.ssa Tonetto Mariagrazia

Forse le famiglie infelici non sono tutte uguali. Eppure, in ogni tempo e luogo della storia le loro vicende possono presentare temi e ritmi comuni. Un omicidio del xvi secolo che ho studiato, la ricompensa d’un marito per l’adulterio della moglie,segue una trama ben battuta dal Rinascimento.

Nonostante o forse in virtù della sua familiarità, del fatto che evochi  lugubremente così tante vicende rinascimentali, risulta essere una buona storia.Un signore, la sua signora, il suo fratellastro illegittimo, i servi e gli abitanti del villaggio, e persino il castello, apparivano buoni protagonisti, un invito a riformularne la vicenda.

 

Giovanni Battista Savelli, signore di un castello di secondaria importanza e di alcune terre nel minuscolo Cretone, ai piedi delle colline sabine a Est di Roma,nel marzo 1559 sposò una sua lontana cugina nata,come lui, Savelli.La sposa apparteneva a un altro ramo di un tumultuoso clan di baroni, insediato in terre e fortezze in tutto l’entroterra romano.Come la maggior parte di tali unioni endogame, questo matrimonio tra nobili non fu servo d’amore me della strategia dinastica.Nel giro d’un anno o due, l’unione della coppia produsse una figlia.Ma subito dopo, probabilmente verso la fine del 1562, Vittoria intraprese una relazione con il fratellastro illegittimo di suo marito, Troiano, nato dall’unione di una contadina del luogo con il padre di Giovanni Battista. Sebbene per metà villano, il giovane risiedeva nel castello di Cretone e dormiva nella grande sala con ghirlande affrescate,raggi dipinti, raffinato camino e alte finestre rinascimentali,e un’ ampia vista su una dolce vallata e aspre montagne.Un amore segreto era difficile da nascondere; già a Natale l’amoreggiare della coppia aveva attirato l’occhio dei villani, che ne facevano pettegolezzo e cercavano di scoraggiare il giovane dalla sua sconsiderata aspirazione.Qualche tempo dopo, anche la servitù del castello subodorò l’intrigo; messo in allarme il marito, iniziarono a spiare. Ciononostante, gli amanti furono tanto destri da evitare prove e flagranza fino a metà dell’estate.

Vittoria dormiva in una camera d’angolo, che sarebbe apparsa inaccessibile all’amore, raggiungibile com’era a piedi solo attraverso un’anticamera ove dormivano sei donne del seguito e la figlioletta Elena. Ma un amante poteva arrivare dall’alto, poiché accanto alla sua stanza stava la torre medievale, tonda e imponente, con la sua scala a chiocciola mezzo dimenticata. La più alta delle sue strette finestre si apriva sull’ala occidentale del tetto, proprio sopra le stanze da notte di Vittoria. Per evitare di essere intercettato, a notte fonda Troiano si spostava in punta di piedi dal suo letto al salone, saliva una rampa fino a un mezzanino, scivolava lungo la torre, strisciava fino alla finestra più alta, fissava una barra e una corda, cadeva sulle tegole, scendeva fino all’orlo del tetto,quindi si calava attraverso la finestra nelle giovevoli e ansiose braccia della sua amata.Le dame di compagnia, che con tutta probabilità udivano ciò che accadeva oltre la soglia della stanza della loro signora,sapevano della relazione, ma prestando orecchio a lealtà, prudenza o timore,tenevano quanto sapevano al riparo dagli uomini.In tutto questo intrigo entrambi i partiti, maschile e femminile,si attenevano a quanto è  consacrato non solo nelle novelle, da Boccaccio a Bandello, ma anche nelle pratiche culturali del loro mondo.

Ugualmente elaborata fu la reazione del marito. Quando Giovanni Battista ebbe notizia dal suo informatore principale, il paggio Giovanni Domenico, dello stratagemma della finestra di Troiano,tese allora un’accurata trappola, facendo costruire un posto di guardia sulla via alla torre con una sentinella dotata di balestra per colpire l’amante qualora egli tentasse   di saltare, sopravvivere all’alto tuffo, e fuggire.Egli quindi stette nascosto nella sua stanza, vestito e armato, torcia e pagina alla mano,fino a che un ciottolo e un messaggero dal basso non lo avvertirono che era arrivato il tempo di colpire. Quindi, con due servi, passò come tempesta per la camera delle dame,con un calcio aprì la porta,e piombò sugli amanti, ancora avvinghiati, com’egli sperava, nell’unione.In flagrantissimo, come i giuristi italo-romani indulgenti esigevano che fosse perché l’omicidio potesse essere legittimo.Sotto gli occhi delle donne del seguito, che si accalcavano alla porta inorridite,inferse a suo fratello un colpo stordente,per poi lasciarlo alla macellazione totale e veloce di un servo.Volgendosi a sua moglie, come molti assassini del Rinascimento, prima di colpire, parlò.Si rivolse a lei nel compassato linguaggio dell’onore: “Avete tagliato la gamba al casato dei Savelli”. Ella potè solo singhiozzare come protesta “Ah, signore, questo no!” prima che egli la trafiggesse alla testa, le recidesse la gola,mentre tagliava tre dita vanamente levate e piantasse il suo pugnale nel suo petto.

Ciò che seguì, sebbene genuinamente rinascimentale nella sua forma generale, fu più singolare. Giovanni Battista sigillò i suoi cadaveri, nella loro nudità compromettente, in un triplice involucro. Prima chiuse la porta sulla stanza insanguinata,mandando le dame di nuovo a letto e comandando loro di non dir nulla di quanto avevano visto.Il mattino seguente, ingiungendo il silenzio ai suoi ospiti, egli chiuse il castello. Quindi, senza spiegazione, comandò al capovillaggio di chiudere il borgo e che nessuno ne uscisse. Dalla notte del Lunedì fino al mercoledì, mentre i cadaveri e il sangue raggrumato marcivano nel caldo di Luglio, queste tre chiusure concentriche restarono intatte .I villani,confusi, allarmati e spaventati per la loro signora, ronzavano, brulicavano e stavano sospesi nell’irresoluzione. Gli abitanti del castello ne sapevano di più ma, tagliata la via in entrambi i sensi, non potevano regolare la questione né per i vivi né per i morti. I cadaveri attendevano, soli, non lavati, non compianti, non consacrati.ciò che liberò i villici, la corte e i corpi da tale concentrico limbo  e riaprì le tre porte fu l’arrivo del fratello di Vittoria, Ludovico,chiamato con urgenza.Sotto gli occhi di villici e servitù,suoi e del cognato,egli ispezionò l’olezzante carneficina, la finestra , l’arpione e la fune dell’amante, assicurando il cognato che, fosse stato lui a sorprenderli, li avrebbe uccisi entrambi. Chiese anche: qualcun altro oltre Giovan Battista aveva toccato sua sorella? Se così, li avrebbe uccisi tutti.L’uccisore di Troiano si affrettò a rassicurarlo: le uccisioni erano state in tutto canoniche.Le parole di Ludovico, assetate di sangue, non devono esser prese alla lettera;tutte le azioni di un fratello avevano un colore rituale; esse assorbivano il massacro e reintegravano il Savelli uccisore di due Savelli nel suo nobile clan. Tale affare concluso, i due nobili se ne andarono a zonzo, fecero colazione,e, assieme a tutti i complici del delitto, scantonarono, lasciando i villici di Cretone a meravigliarsi, cercare spiegazioni, raccontare, dolersi e seppellire i loro due cadaveri. I villici in lutto posero Vittoria nella chiesa del villaggio e Troiano, come adatto,in una remota cappella fuori dall’abitato.

Due settimane più tardi, arrivò la corte, mandata da Roma coi soliti poteri di interrogare,incarcerare e torturare.Non arrestò nessuno dei protagonisti,al sicuro lontano,ma torchiò villici e le donne della servitù.Al consueto modo Romano,conservò trascrizioni quasi verbatim delle deposizioni. Esse sopravvivono in un processo compatto di 16 folio, ora conservato presso l’archivio criminale del Governatore, presso l’Archivio di Stato di Roma.
 

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2. l’autore visibile.


Nel suo famoso saggio sui combattimenti di galli Balinesi,l’antropologo Clifford Geertz inizia con un vivace aneddoto circa la sua scampata per il rotto della cuffia dagli arresti quando la polizia irruppe su un combattimento.La sua tattica narrativa è astuta; essa stabilisce la sua bona fides, in quanto lo mostra su due piedi, in entrambi i sensi del termine, e illustra anche in modo immediato la sua distanza dai suoi ospiti e la loro crescente accettazione a mano a mano che egli ne condivide i rischi.In tal modo essa fa brillantemente  il punto sullo scarto tra la rozza esperienza acquisita sul campo e la complessa, elegantemente astratta teoria sul gioco d’azzardo che segue, proprio dietro a quella nello scritto.Nel suo saggio le due operazioni, esperienza ed analisi,la prima tumultuosa, sensoriale, e movimentata,l’altra serena, cerebrale e riflessiva, stanno fianco a sfianco in deliziosa e gioviale tensione.Gli antropologi, professionisti dall’acuta autocoscienza, intrattengono sentimenti vari riguardo alla correttezza relativa all’intrusione di un osservatore in modo tanto profondo nel contesto; la lezione che ne deriva è dibattuta: ciò convalida o indebolisce la pretesa di conoscenza? Ciononostante, la ricca ambiguità di una osservazione da partecipante spesso invita gli autoritratti di chi lavora su campo.

Di rado così con la storia.le nostre ambiguità e enigmi interpretativi sono non meno reali di quelli degli antropologi, ma quale shock culturale soffriamo, di quali delusioninnn violazioni di intimità gioiamo,essi sono ampiamente solitari, il frutto d’un quieto dialogo mentale coi documenti.Raramente è materia di racconto.Ma in questo articolo e nel presente numero, il nostro soggetto sono la distorsione estetica e la storia scritta con brio: cos’è che spinge lo storico a svolazzare secondo folli angolature via dal sentiero battuto della scrittura di solidi saggi?Che cosa nella cultura del momento o nell’economia politica del nostra competitiva professione conduce un numero sempre maggiore di noi a muoversi in direzione dell’arte?Poiché la qualità artistica,quantunque cerchi di nasconderne la mano,proprio in virtù della sua particolarità, proclama forte la presenza dell’autore. Così, sebbene io non sia Geetz, lasciate che  racconti come due storie sui Savelli, la mia e quella di Deborah, sono cresciute.  

3. La ricerca d’archivio


Negli archivi di Roma,circa dieci anni addietro,sguazzando in floridi processi,inciampai nell’omicidio Savelli. Catturò il mio sguardo mentre seguivo le tracce d’un altro Savelli, un precedente Giovan Battista del medesimo ramo sabino, che aveva fatto guerra a un altro villaggio del quale mi occupo. Mentre leggevo questo processo, le testimonianze dei contadini, specialmente le parole particolarmente cariche di dolore delle donne che avevano lavato il corpo di Vittoria, misero radici nel mio cuore, così lo misi per iscritto. E tenni il processo, come molti altri,pensando di scuoterlo un giorno come un copriletto dimenticato o un drappo sopra delle osservazioni sulla storia sociale di quel tempo e quel luogo.qualche anno più tardi,nel Giugno 1999,con mia moglie, una studiosa, presi un’auto in affitto per visitare degli amici,ciò che faccio di rado poiché le tariffe italiane sono assurdamente alte,e allora –Perchè nò! Sulla via del ritorno, visto che ero su quattro ruote, deviai per le colline sabine per visitare dei paesi sui quali speravo di scrivere. A Moricone,sito d’una zuffa del sedicesimo secolo di cui mi sono occupato,incurantemente scattai tutte le mie foto. Speravo di vedere anche Cretone, luogo degli omicidi Savelli .Era dopo pranzo:molto caldo,silenzioso,la sacra siesta: niente rullini da nessuna parte.Andammo a Cretone, un posto minuscolo, con due modesti bar e una buona vista dei monti della Sabina, e , incombente su di esso,il castello del crimine.Ci recammo alla porta principale e trovammo, come ci aspettavamo, un cantiere:come avevamo sentito, nuovi proprietari stavano restaurando. Allora,non avevo idea dove Vittoria e Troiano si fossero amati e fossero morti. Indicando, chiesi a un operaio corpulento e sporco d’intonaco: quella torre, ha una scala? “perché”? Gli spiegai. L’operaio, sorridendo,mi indirizzò dall’architetto,un uomo più giovane,dalla barba ordinata, dai vestiti puliti, dal cellulare alla mano, appollaiato su una vicina scala esterna.Ripetei la mia domanda circa la torre e spiegai, con i mostruosi salamelecchi di dovere, il motivo della mio inquisire. “ah, quegli antichi signori!” mi piacerebbe vedere all’interno? Mi piacerebbe veramente! “stiamo per entrare”dissi a mia moglie. Fra polvere e calcinacci in abbondanza, facemmo il giro di tutto l’edificio, dalle segrete al tetto,controllando le traiettorie di discesa dalle finestre superiori a plausibili finestre della moglie un piano di sotto e elucubrando sulla successione delle camere. Essere sul luogo del fatto, per noi storici, stimola l’immaginazione. Vedevo Giovanni Battista, pugnale in mano,che irrompeva dalla porta fatale.Ma quale porta?Non riuscivo a far filare la struttura architettonica.
 

Un anno più tardi, nel maggio 2000, ero di nuovo a Roma, determinato a lasciar riposare il mistero Savelli. Il mio problema, non era che cosa fosse accaduto, ma dove e , di conseguenza, precisamente come. Stavolta ero preparato meglio, con molti rullini e una buona guida,in quanto il nuovo proprietario del castello è il cugino di uno studioso amico di un altro studioso amico mio. La mia intermediaria, la dottoressa Fiora Bellini,conservatrice a Castel sant’Angelo, la grande fortezza papale sulla riva del Tevere,trovò gentilmente per me delle copie cianografiche del castello, del 1900 circa,e mi accompagnò dall’architetto direttore del restauro, il dottor Giorgio Tarquini. Accordatici, noi Nordamericani e l’architetto ci incontrammo alla porta del castello e ancora esplorammo, seguendo indizi e sbirciando nell’attico,e compassando la terrazza che rimpiazza l’antico tetto dell’ala occidentale. Il dottor Tarquini ci disse molto sulla struttura dell’edificio e sulla sua evoluzione. Si unì alla caccia , come fece mia figlia, ma in quattro non riuscimmo a capire dove Vittoria avesse dormito, amato e dove fosse morta.La risposta alla fine mi balenò l’ultima mattinata  a Roma; avevo disteso le mappe su di un tavolo assolato sul nostro balcone per scattarne delle foto “per i miei studenti”,quando attraverso l’obbiettivo della Nikon, notai una minuscola finestra in cima alla torre, abbastanza lontana lungo la curva che, dalla strada di fronte, non si riesca a vederla. Un tempo guardava sull’ala ovest del tetto, ora perduto ma ancora visibile nelle cianografie. Tale tetto digradava facilmente verso la facciata nord, ove, proprio sotto, stava l’unica finestra d’una piccola stanza d’angolo. Improvvisamente ogni cosa andò a posto:il convegno degli amanti,le dame del seguito nei loro letti,la camera di Giovan Battista e la sua finestra che ricevette la pietra lanciata, la grande sala dove l’illegittimo dormiva,il suo percorso tortuoso, attraverso il mezzanino,verso la scala della torre,il nascondiglio delle spie che tendevano l’imboscata lungo la via.La storia, non diversa nella sua sequenza, aveva acquistato la sua geometria. I furtivi movimenti di tutti gli attori avevano ora molto più senso.
 

4.Raccontare la storia come pedagogia


Quell’autunno, diedi l’intero rozzo guazzabuglio ai miei studenti di primo anno. Poiché erano a lezione di metodologie, mi piaceva l’idea che “facessero” storia , come fanno gli accademici. Nel kit del corso posi le undici cianografie –mappe dei piani e prospetti interni ed esterni, e una traduzione in inglese del processo, più tutte le genealogie e note legali sui Savelli che avevo trovato negli archivi di Roma. Il compito, per gruppi di tre o quattro:trovare i cadaveri e tutti gli altri luoghi della trama,e compilare due tabelle coerenti, una sul tempo, l’altra sulle persone. Contemporaneamente, diedi lo stesso materiale a Deborah Hicks, un’assistente che ha una passione per la microstoria.Il suo lavoro:prima risolvere il mistero e poi scrivere il racconto storico nella forma appropriata. Un lungo sciopero complicò le cose; per settimane usai il progetto Savelli per far continuare a lavorare i miei studenti. Poi, siccome lo sciopero si prolungò e l’anno era in stallo, quale antidoto alle intense frustrazioni per le relazioni andate a monte, scrissi io stesso una versione. Deborah, come stacco dal pesante picchettaggio, fissava le cianografie intonacate sul suo muro. Trovò presto i cadaveri, come alla fine fecero molti degli studenti, a volte con l’ausilio di indizi mirati per e-mail .

Quando tutto fu tornato alla normalità consentita da quello strano anno, la classe, Deborah ed io lavorammo duramente sui problemi della narrazione storica. Una volta che si conosce la storia, come la si vuole raccontare?Da dove iniziare?Finire?Qual è il tuo punto di vista e la tua voce?Dal momento che la maggior parte dei miei studenti conosce molto meglio il cinema che non la prosa, lavorai con le convenzioni cinematografiche, per analogia:quando usare uno zoom, una panoramica,una carrellata, come realizzare il montaggio o giuntare il nastro. Come costruire una voce o un punto di vista. E anche , si trattasse di un vero film, come scritturare gli attori e mettere in scena una versione della storia. “io farò la moglie e Brad Pitt sarà l’amante” scherzò un esile studentessa. E, in tutto questo, chiesi in che cosa una rappresentazione teatrale differisca da una spiegazione storiografica. “Il Gladiatore” aveva appena avuto un successo strepitoso, così la comparazione e l’ epistemologia erano facili. Intanto, Deborah ed io pasticciavamo sulle nostre versioni separate. Avevamo scelto i nostri punti di partenza:lei iniziò quando Ludovico, il fratello, bussò alle porte di Cretone. Io iniziai in modo perverso,chiaramente, coi due amanti a letto nel piacere, Vittoria nella sua vecchia camicia,Troiano nudo, proprio nell’istante prima che il marito fatale spalancasse la porta a calci, per poi congelare l’azione prima che colpisse.Entrambi tornammo poi indietro agli inizi del racconto. Ed entrambi chiudemmo su parabole ed analogie. Lei, lettrice di Eli Diesel, meditò sui poteri risanatori della narrazione romanzesca, mentre io suonai ritornelli sulle prigionie fatate delle favole.

L’arte come figura interpretativa


Come ogni altro genere di saggio,una narrazione microstorica,sebbene si sforzi in direzione dell’arte,resta un’argomentazione.Strutture grandi e piccole, movimenti, figure,ombre e sfumature, tutto stabilisce delle asserzioni e avanza un’interpretazione. Spesso, comunque, in uno scritto dominato dallo sforzo artistico, il messaggio storico è più latente, meno manifesto. Perché, sebbene la stessa forma rappresenti un’argomentazione,essa spesso non può confessarlo senza sovvertire il suo gioco leggero.Un messaggio sul messaggio può stridere;esso rompe la convenzione estetica e rimuove l’astuta maschera. Eppure la riservatezza ha i suoi pericoli; la preoccupazione estetica può sollecitare un quadro che, se soddisfa un gusto per una forma teatrale, patetica o comica, altera la conoscenza che l’autore ha del passato e , di conseguenza, il passato stesso. E la stessa marea dell’abilità artistica può alterare, in meglio o in peggio, la stessa comprensione dello scrittore. Così, a una certa distanza dal mio lavoro sui Savelli, ne spiegherò l’argomentazione sottesa.

Nel mio lavoro, come Geertz in B ali, sono stato affascinato dalla tensione tra flusso e stasi. I processi italiani, spesso, presentano spesse fette di vita semplice, tutta rumore, tumulto,e movimento.Allo stesso tempo, il suono e la furia del Rinascimento sembrano spesso seguire tacite regole e costruire e distruggere strutture evanescenti. Queste strutture, tuttavia, sono sospette.Sono esse “-emiche” (  all’esterno nel mondo italiano ) oppure “etiche” (annidate nella mente dell’osservatore?) Oppure, come è probabile, un po’ entrambe?Un lavoro utile pertinente a una storia-in-quanto-arte è offrire figure di siffatta ambiguità; proprio la sua qualità artistica, la sua chiara struttura, rende il lettore sensibile alla tensione tra la vita tumultuosa,immediata e accidentata, con strutture più placide, sia dentro, sotto o fuori da quel mondo.E’ per questa ragione che, nei saggi, ho spesso fatto ricorso alle convenzioni teatrali,presentando gli eventi del passato in guisa di drammi in cinque atti, o di soap-operas.E’ lo stratagemma stesso che rende il lettore sensibile all’atto della lettura, e al carattere doppio della comprensione, sia per via diretta, tramite appassionata empatia, sia tramite il distacco e la ponderazione. A volte come Brecht nell’Opera da Tre Soldi, ho sperimentato l’uso di due voci, una per gli eventi, l’altra per l’analisi. Brecht ha usato il suo commentatore per caricare Entfremdung (alienazione) e per mettere in guardia gli spettatori contro l’ambiguità dell’arte.questo trucco può ben servire anche la storiografia.

La vicenda dell’omicidio Savelli, per servire da materiale artistico, richiedeva una struttura.In modo seducente, gli eventi stessi si offrivano prontamente al racconto narrativo. Presentavano una bella forma: 1 una crisi serpeggiante; 2 una catastrofica risoluzione negli omicidi; 3 il momento delle tre porte chiuse, un periodo di straordinaria tensione e congelamento dell’azione; 4 un improvviso, drammatico scioglimento di quella tensione quando il fratello di Vittoria, Ludovico, varcò tre soglie riaperte, e quindi; 5 un improvviso, disordinato scioglimento mentre il villaggio era in lutto e , presto, la legge inziava ad arrotare i suoi pesanti ingranaggi.Ogni fase ostentava duri , ironici contrasti riguardo a  passione e andatura.Nella prima:caldo struggimento, ansietà, tremola sospettosità,accanito curiosare, teso sorvegliare, in un movimento lento e furtivo. Nella seconda: rabbia, terrore, orrore in una fretta rovinosa e catastrofica. Nella terza: timore logorante,duolo arrestato,stupefazione,tutto in un’animazione sospesa.Nella quarta, la misteriosa ambiguità di Ludovico e i suoi ben padroneggiati sentimenti, e l’esplosivo dolore dei villici, che alla fine conobbero vero ciò che avevano temuto. Qui, il movimento è cerimonioso e scorre in modo grave, iniziato dall’improvvisa apertura delle porte del villaggio e la liberazione di diversi flussi emotivi e d’azione.Nel quinto, i contadini, a volte aperti,a volte timidi, rispondono o evitano le domande invadenti degli ufficiali di corte, uomini, probabilmente altrettanto opachi a loro che agli storici di oggi.[ Gli scrivani hanno ragistrato le domande della corte in uno schematico riassunto Latino, molto meno trasparente dell’italiano verbatim delle risposte dei testimoni.] Il movimento: misto e centrifugo,poiché la forza e la premura si mescolano lentamente.

Questi cinque stadi in qualche modo furono realmente lì, sul campo, a Cretone, durante tre giorni di Luglio del 1563. Tali erano le tensioni, passioni, e movimenti mentali del villaggio. I documenti relativi al processo ne mostrano o ne suggeriscono alcuni, mentre ce ne lasciano sottintendere altri. Come sempre, sebbene noi storici siamo in grado di localizzare e intuire tali sensazioni e pensieri,non possiamo mai conoscerli o sentirli allo stesso modo di coloro che erano lì.Su questo punto, sebbene non i primi a dirlo, gli scettici post-moderni hanno ragione. Il pathos della distanza influenza sia il saggio storico tradizionale sia la versione artistica.Ma la sua operazione differirà, sospetto, con il tipo di scrittura.Il saggio, con la sua voce oggettiva,se scrupoloso, nominerà e descriverà i problemi relativi alla conoscenza storica.Ma quale deve essere l’atteggiamento di uno scritto artistico che si sforza di essere onesto e vivido allo stesso tempo?L’autore ha diverse possibilità. Una, degna di Boccaccia o Chaucer,sarebbe di incorniciare l’arte in una incastonatura in un’altra voce, l’autoriflessione del narratore, distaccata e critica. Un’altra sarebbe di veleggiare al di sotto dell’arte con chiose a piè di pagina,epistemologici delfini di scorta dello scetticismo sotto la chiglia glissante della prosa.Un terzo, che spesso privilegio, è quello di rendere l’arte così manifestamente artificio che proprio attraverso la sua forma essa  proclama la sua ironia, attenzione e distanza dall’argomento.

Così, quale artificio per gli omicidi di Cretone, accanto alla struttura temporale data dai sentimenti nei loro cinque stadi, ne ho usato uno spaziale: ho adoperato degli anelli concentrici: la camera da letto fatale,il castello, il paese,l’universo.Prima degli omicidi, questi cerchi erano stati tutti collegati da un traffico tra i loro confini. Col primo colpo e gli ordini successivi, Giovan Battista separò ogni cerchio dai suoi vicini. Così facendo, isolò quattro gruppi: i morti, la servitù del castello,i paesani e il mondo.Tale isolamento spaziale congelò tutti(eccetto la razza umana):gli abitanti del castello potevano provare timore ma non potevano raggiungere né i vivi né i morti. I villici non potevano né portare il lutto, spiegare o raccontare. E i morti, ovviamente,non  potevano riconciliarsi né con Dio né con gli uomini,perché nessuno poteva garantir loro sepoltura.Tutte queste sospensioni producevano uno stato di spaventosa liminalità; niente avrebbe potuto essere normale.Non prima che le tre porte si riaprissero. Ma, per riaprirle, Cretone aveva bisogno di Ludovico.Solo lui poteva reintegrare l’omicida nel suo clan e tra i parenti della moglie, la sorella morta con la sua dispiaciuta, seppure adirata famiglia,il villaggio coi suoi signori. Ora, in realtà, i cerchi appaiono più netti di quanto fosse la realtà sul campo. Come mostrano le mappe, la camera di Vittoria era infatti come un foglio con le orecchie,incavata dalla convessità del muro curvo della vecchia torre,e il castello, nonostante la protuberanza della torre,non era circolare, ma più o meno un rettangolo anch’esso, mentre il villaggio fortificato sarebbe sembrato, a una gazza di passaggio, una losanga oblunga sulla cima di un colle.La tensione tra la geometria accidentata del reale e la falsa chiarezza della mia metafora, in un certo senso fa brillare lo sforzo storiografico.Esso evoca lo sforzo di raziocinio su eventi strazianti e turbolenti.Un tocco brechtiano, un soffio di Entfremdung.I cerchi diventano l’emblema degli spazi nei quali veramente non possiamo entrare, proprio come, e diversamente da Troiano o dal pugnale del marito,non possiamo entrare nella povera Vittoria.

Poi, in un secondo paragone che sfruttava sempre la metafora del cerchio, scrissi che Cretone era come il castello incantato di tanta parte della tradizione folklorica, chiuso per incanto non con la magia, ma dalla drastica violenza e dai feroci ordini del suo signore.Ci volle un principe magico, Ludovico, per sfondare le barriere. Ma, in questo caso ironico, la principessa era morta, e l’amore,  la sua entrata in scena già scatenata,non era romantico, ma familiare o comune, soffuso dal caldo e turbato dolore di paesani e dei servi.

La storia e l’arte sono in contrasto in diversi modi.Diciassette anni fa,il New Yorker produsse un saggio sbalorditivo,anonimo,una meditazione giocosa sulla storia,sul romanzo, su nozioni cabalistiche di come Dio riempia il mondo,e, alla fine, sui bei romanzi di Larry McMurtry. L’autore, atteggiandosi a storico, notava che egli,o ella, aveva sempre sognato di scrivere una fiction storica, ma non poteva, perché il mondo ne era già pieno. Un’isola caraibica, un nuovo appartamento a New York, una nuova casalinga—il saggista ricordava i giorni delle casalinghe—disturberebbero un cosmo in modo incalcolabile. Un punto ben evidenziato; noi storici che giochiamo con le strutture della narrazione fantastica non possiamo prenderci le libertà della narrazione fantastica.Non una goccia di poggia, né uno scintillio di luna in una pozzanghera, non un singhiozzo o una lacrima possono aggraziare la nostra pagina senza una prova.Come nella seducente Armada di Mattingly, “forse” e i suoi cugini sono l’utile rifugio di uno studioso. Tuttavia, a differenza degli autori di fiction,persino Mattingly non può riempire le sue lacune. E  sono una legione;sebbene il mondo sia pieno, la nostra conoscenza è in molti casi vuota—interrotta da buchi, e non possiamo far finta di colmarli. Così, nello scrivere storia, l’arte lotta contro le limitazioni imposte dalle nostre regole. La limitazione stessa è una fonte di piacere, se non per il lettore, almeno per lo scrittore. Una tensione in più fra due serie di regole, estetiche da una parte,empiriche dall’altra.

Lo stesso problema sorge quando ci confrontiamo con la questione dei finali. È facile per gli storici intraprendere una narrazione artistica. Basta scegliere un bel punto d’inizio,emblematico, allusivo, evocativo, teso. Svignarsela, credo, è infinitamente più difficile. Perché, a differenza dei drammi o dei romanzi,la storia, come la vita, finisce in modo disordinato;gli eventi si sbrogliano solo. L’amabile geometria che sostiene una storia crolla  a terra; i protagonisti se ne vanno verso altri garbugli di storie. La tensione svanisce. Le estremità sciolte abbondano.
 

Il mio saggio su Cretone così ha messo radici su un terreno contrastato poichè giocava con le ironie del contrasto,dell’azione, della forma,nella misura in cu tali ironie appartenevano al dramma del momento.Allo stesso tempo esse evocavano l’ironia del fare storia. Perché, ovviamente, quello che accadde a Cretone non fu né una cerimonia geometrica né una fiaba.Evocare tali convenzioni narrative significa ricordare al lettore che, come narratori,più ci teniamo vicini ai nostri soggetti, in letti incestuosi o adulteri ad esempio,più diveniamo consci del dolce pathos della loro distanza da noi.Né la loro tenerezza, né il terrore, né la rabbia o il dolore saranno mai veramente condivisibili da parte nostra. Come Geertz, quello che abbiamo alla fine e più di tutto è la parte alienante: la nostra comprensione della struttura di ciò che è accaduto, la nostra capacità artistica e il suo risultato.Ma, proprio come gli antropologi sul campo, ospiti senza invito, desideriamo quell’entrata furtiva.
 

Prof. COHEN Docente alla MCMASTER University of Canada                                                                                           

Traduzione a cura della Dott.ssa M. GRAZIA TONETTO

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